LO STATISTA UCCISO. Il professor Manuel Gotor all’istituto Pasoli ha tenuto incollato alle sedie il folto pubblico
«Caso Moro, dopo 36 anni ci sono segreti non svelati»
Elisa Pasetto
Un sequestro spionistico tra piani militari, industriali e diplomatici. Nuova commissione parlamentare e ottava inchiesta
Chi pensava di assistere a una lezione di storia è rimasto spiazzato, trovandosi catapultato nel racconto di «un giallo, un vero intrigo, in cui la realtà supera di gran lunga la fantasia». E’ la tesi innovativa e avvincente sul «caso Moro» di Miguel Gotor, docente di Storia moderna all’università di Torino e dal 2013 senatore nelle file del Pd, invitato l’altra sera all’istituto Pasoli dalla Rete Prospettiva Famiglia (in collaborazione con la scuola stessa e l’Istituto storico per la Resistenza e l’età contemporanea). E Gotor con un rigore e una lucidità disarmanti, che hanno tenuto il pubblico, tra cui moltissimi studenti, incollato alla sedia, ha dimostrato come «quello che rende affascinante lo studio dei 55 giorni intercorsi tra il rapimento del leader della Dc il 16 marzo del 1978 e il ritrovamento del suo cadavere il 9 maggio, non sia solo l’identificazione emotiva con il dramma della vittima, quanto il carattere spionistico della vicenda, che chiama in causa segreti militari, industriali e diplomatici» dell’Italia (e del mondo) di allora e, forse, anche di oggi.
Che quel sequestro abbia ancora molto da dire a 36 anni di distanza lo dimostra l’istituzione, solo qualche settimana fa, di una commissione parlamentare d’inchiesta sul caso, di cui si è trovato a far parte lo stesso Gotor che già tra il 2008 e il 2011, in veste di storico, aveva sviscerato in due volumi le «Lettere dalla prigionia» di Aldo Moro e «Il Memoriale della Repubblica», gli scritti dell’interrogatorio a cui fu sottoposto dalle Brigate Rosse. Mentre è tuttora aperta un’inchiesta della magistratura sul tema, l’ottava. «Invece è ora che politica e magistratura si tacciano e che a parlare sia la storia», ha esordito il professore introdotto da Paolo Stefano, presidente di Prospettiva Famiglia, dalla referente storico-culturale Silvia Pasquetto e dal direttore dell’Istituto storico Federico Melotto.
«Sarebbe una sorta di risarcimento che l’Italia deve ad Aldo Moro che ancora oggi, quando i protagonisti della vicenda sono scomparsi, continua ad essere prigioniero delle dietrologie e dei suoi carnefici, quei brigatisti che negli anni hanno scritto libri rielaborando la memoria dell’evento».
Ed è proprio provando a lasciar parlare la storia che Gotor, in otto anni di analisi filologica, ha «spremuto come limoni le carte di Moro». Non solo le lettere autografe ma anche i dattiloscritti rinvenuti nell’ottobre del ’78 nel covo milanese di via Montenevoso, così come le 419 fotocopie di manoscritti saltate fuori per caso da un’intercapedine dello stesso appartamento solo nell’ottobre del 1990 (tra cui il cosiddetto Memoriale, il suo testamento politico). «Carte importantissime, perché da queste emerge come l’obiettivo delle Br fosse raccogliere notizie sulla sicurezza dello stato a livello nazionale e internazionale, una dimensione rimasta nascosta all’opinione pubblica».
Lo si evince dalle stesse parole dello stesso ostaggio nelle lettere recapitate il 29 marzo al suo segretario personale e al ministro dell’Interno Francesco Cossiga, in cui parla del «rischio di essere chiamato o indotto a parlare», fatto «sgradevole o pericoloso, in determinate situazioni». Missive dalle quali emerge chiaramente, chiarisce Gotor, «l’interesse dei brigatisti di creare un canale segreto di comunicazione tra la prigione e l’esterno, attraverso cui far transitare documenti come piani militari e dei servizi segreti, codici di armamento».
Un sequestro che non voleva essere «un regicidio», ma «uno scacco al re, allo Stato»: l’importanza del sequestro Moro, conclude lo storico, «dipende da se, come e quando ha funzionato questo canale segreto che le stesse Br volevano tutelare. E così, 36 anni dopo, potrebbero esserci in ballo segreti ancora non svelati».