Il dolore, la condivisione, la commozione e il viaggio. Domenico Quirico, uscito da poco in edico- la con “Il Grande Califfato”, racconta la sua storia di uomo e di inviato di guerra. Organizzato da Rete Prospettiva Famiglia, l’incontro formativo del mese di febbraio per studenti, docenti e genitori ha registrato un boom di presenze.
di Giovanni Melotti
20 febbraio 2015, ITES Aldo Pasoli, sala gremita, ospite speciale: Domenico Quirico. Reporter di guerra per il quotidiano “la Stam- pa” è apparso nell’aprile di due anni fa, sulle principali testate nazionali e in tutti i notiziari, per i suoi 150 giorni di sequestro in ter- ra di Siria. Una persona fuori dal comune, un viaggiatore. Raccon- ta il dolore delle persone, viven- dolo sulla propria pelle. Rapito in Siria ma prima ancora in Libia. Ha compiuto «la tratta della mor- te», dalle coste africane a quel- le italiane, stipato in un barcone assieme a centinaia di extraco- munitari. Per questo e per molto altro, non occorre commentare gli interventi del suo discorso, che ha lasciato senza parole le centi- naia di presenti alla serata. Ve ne riportiamo una sintesi, tutta d’un fiato. Non c’è bisogno di aggiun- gere altro.
«Il giornalismo è il racconto del- la sofferenza dell’uomo. L’unico modo che mi autorizza a raccon- tarla è passarci attraverso in pri- ma persona. Stare male, soffrire con i soggetti delle mie storie è il rapporto obbligatorio che devo mettere in atto per dare un’in- formazione etica. Posso dire che l’inizio della mia carriera è data- to 1994, anno dello sterminio del Ruanda. Quasi un milione di mor- ti. È cominciato lì e mi ha cambia- to la vita prima come uomo e poi come giornalista. Quando sono arrivato nei luoghi dell’ecatombe, ho capito di essere arrivato tardi. Ho avuto un modo orrendamente sbagliato di lavorare, perché ho raccontato solamente il dopo-ge- nocidio. Non ho condiviso il dolore e la sofferenza di quelle persone. La condivisione, parola fondamentale per noi giornalisti, pro- prio perché la mancanza di testi- monianza impedisce di capire. E a questo proposito, credo che l’im- magine più straordinaria del mio lavoro sia stata scattata durante la guerra di Cipro da una perso- na che fa un’altra professione. Un fotografo appunto. Entrato in una casa ha trovato davanti ai suoi occhi una scena terribile. Una gio- vane ragazza a terra, senza vita, in un mare di sangue e lacrime. Queste ultime erano dei genitori che vegliavano in piedi accanto a lei. “Ho scattato una fotografia e mi sono messo a piangere”, disse. Questo è il giornalismo! Il senso unico, definitivo e non modificabi- le di questo mestiere, sta in quel- le due azioni: la condivisione e la commozione. Oggi ci vogliono far credere che l’informazione si tro- vi in Internet, che viaggi dai social network agli smartphone. Che sia sempre online, sempre aggiorna- bile e sempre modificabile. Non è così, non credeteci. Mi piace sem- pre dire invece, che il mio lavoro, in fondo, è quello del viaggiatore. Io vengo pagato per viaggiare». «Esistono due tipi di persone che girano il mondo. I Phileas Fogg de “Il giro del mondo in 80 giorni” e gli Ulisse. Ai primi non interessano le storie e le persone che incontrano, tornano uguali a prima. Io faccio parte dei secondi. Il viaggio mi deve assolutamente cambia- re, ho bisogno di farmi trasfor- mare dalla gente, dallo spazio, dal tempo e dalle storie che an- drò poi a raccontare su pagine di giornale. Se non torno cambiato, non ho capito niente del mio la- voro. Ogni persona che incontro diventa parte di me. E così è sta- to anche in Siria. Quando i miei rapitori, dopo mesi di sequestro mi dissero “sei libero”, ho pensato che fossero loro i veri prigionieri. Del loro Paese e della loro situa- zione. Perché io me ne andavo via e loro rimanevano là. L’esperienza del rapimento mi ha insegnato a ritenere fondamentale una serie di cose semplici, che per tutte le persone conosciute nei miei viag- gi sono pressoché impensabili. Dormire, bere acqua dal rubinet- to, premere un interruttore della luce. Ero addirittura ossessionato dalla possibilità di aprire una por- ta e ancor di più dal poter uscire di casa e decidere liberamente se andare a destra o a sinistra sen- za che nessuno, con un kalash- nikov in mano, mi dicesse “No, di lì non puoi andare”. In gran parte del nostro pianeta, la differenza tra “uomo” e “cosa”, sta nell’avere un kalashnikov. A un’ora di aereo da noi, il mondo è un altro, credetemi».
«Ora… Se qualcuno ha qualche domanda da fare credo sarebbe molto più interessante che ascol- tare queste mie inutili chiacchiere».
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