Aldo Moro nelle parole della figlia Agnese
Vi racconto mio padre
di Giovanni Melotti
“Rete Prospettiva Famiglia” organizza l’ennesimo incontro da tutto esaurito all’ITES Aldo Pasoli. Agnese Moro racconta la gioventù, le idee, i sogni del padre Aldo. E quei maledetti 55 giorni. Noi l’abbiamo intervistata.
Vi ringrazio per essere qui questa sera. La vostra presenza rende memoria a mio padre. Stasera ricorderemo la sua vita, faremo un viaggio per capire la sua persona. Rendere memoria non significa solo ricordare, ma anche conoscere, comprendere, giudicare e quindi agire».
Parla così, Agnese Moro aggiungendo come in questi decenni tante persone si siano accalorate sul “come” della vicenda di suo padre. 5 processi e 3 commissioni parlamentari per provare a spiegare chi c’era 37 anni fa, cos’è realmente accaduto e con quali modalità.
«Io invece ho preferito interrogarmi sul “perché”. Proverò a raccontarvi di Aldo Moro come papà, marito, uomo. La sua passione fin da piccolo è stata lo studio, anche perché a livello manuale era negato per qualsiasi cosa. A scuola invece era un autentico secchione. Finita la scuola decide di dedicarsi all’insegnamento e a soli 23 anni diventa professore universitario. Amava insegnare, era la sua vita. Dialogare con i suoi studenti, era per lui motivo di felicità e di orgoglio. Se non avesse fatto politica avrebbe sicuramente passato i suoi giorni tra i banchi di scuola».
Cos’ha spinto suo padre a lasciare la cattedra di professore per intraprendere la carriera politica?
Aveva un sogno. Costruire un paese che vivesse in una dimensione di libertà e di pace e dove al centro del sistema ci fossero le persone comuni.
Cosa significava per lui “fare politica”?
Per lui la politica era parlare e spiegare, incoraggiare le persone a fare del proprio meglio. Era discutere e incontrare la gente. Era lavorare: partiva da casa alle sette e trenta del mattino e tornava poco prima delle undici , cenava e finiva di lavorare. La politica era anche chiedere e ascoltare, da ogni persona con cui parlava imparava qualche cosa di nuovo. Era infine conoscere, tutte le situazioni anche quelle più sfortunate, andava spesso ad ascoltare i detenuti nelle carceri.
Ci racconta qualche aneddoto di Aldo Moro come padre?
Noi figli (Agnese è la terzogenita ndr) non abbiamo mai provato vanto per la professione governativa di nostro padre poiché a casa non ci stava quasi mai. Tant’è che quando cadeva un suo governo eravamo felici, almeno potevamo passare un po’ più tempo insieme (ride ndr). All’epoca ricordo che io e i miei fratelli uscivamo a fare festa fino a tardi con gli amici. Lui aspettava sveglio fino a che tutti non avessimo fatto ritorno “all’ovile”. E mentre ci aspettava, lavorava. Lavorava in continuazione. La sua idea di riposo era: lavorare nella casa in campagna, accanto a mia madre. E quando andavamo al mare, in spiaggia beh… ci veniva in giacca e cravatta (sorride e mostra gli scatti fotografici ndr).
16 marzo del 1978. Suo padre viene rapito e gli uomini della scorta vengono uccisi a bruciapelo. Come ricorda quei 2 mesi? Ha trovato la risposta al suo “perché”?
Con Oreste Leonardi e Domenico Ricci ci sono cresciuta, Giulio Rivera e Raffaele Lozzino li ho conosciuti in un tempo successivo, Francesco Zizzo invece non ho avuto tempo di vederlo, era la prima mattina quella, che faceva parte della scorta di mio padre (con un velo di commozione, mostrando le foto ndr). Sono stati 55 giorni terribili. È stata giocata una partita straordinaria nel suo orrore. Gli articoli di giornale erano i medesimi, ogni giorno, il tutto in un clima di paura e smarrimento creato da una manipolazione delle coscienze delle persone. In tutto questo, il vero protagonista della vicenda, è stato lasciato completamente abbandonato a sé stesso. Solo Dio era con lui: “Ci ritroveremo ancora e ci riameremo ancora. Sia fatta la Sua volontà” scriveva a mia madre, in una delle lettere scritte dal carcere delle brigate rosse. Lui sapeva di essere in pericolo, ha chiesto aiuto e nessuno gliene ha dato. Chi aveva il potere di liberarlo, non l’ha fatto. Nel momento in cui mi si dice che non si è disposti a trattare, la politica muore. Perché la politica è prima di tutto dialogo. Era testardo mio padre. La sua testardaggine nel portare avanti i suoi progetti lo portava spesso a mettersi in mezzo ai guai. Ma lui andava avanti, credeva fortemente nel suo sogno di vedere le persone comuni protagoniste della politica. Mia madre glielo ripeteva spesso: “Guarda che per come sei fatto, andrà a finire male”. Le rispose in un’altra lettera: “Avevi ragione tu”. La risposta al mio “perché” l’ho trovata: mio padre rappresentava una persona scomoda, con un’idea di democrazia che a molti non piaceva. È stato rapito e non si è mosso dito per liberarlo. Credo, concludendo, che tutti noi dobbiamo chiederci: “come vale la pena vivere la nostra vita?” Io non so se mio padre abbia fatto bene o male a vivere la sua, così. Ritengo che il giudizio spetti ad ognuno di noi.
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