di Giovanna Tondini
Ospite dell’ultimo appuntamento dei numerosi che hanno animato il programma di “Prospettiva Famiglia” e della rete “Scuole e Territorio: educare insieme”, la sorella del magistrato ucciso nella strage di via D’Amelio ci ha raccontato il fratello e ci ha ricordato come si debba «tornare a sperare per costruire».
Quando arrivammo, girai le spalle. Dissi che in quel luogo non ci volevo più tornare. Ma sei pazza? Mi urlò mia figlia. Questo è un luogo sacro e noi dobbiamo rimanerci, mi disse. Lei aveva solo 21 anni e aveva già intuito il futuro».
Da una tragedia si può cogliere la possibilità di un riscatto. Per Rita Borsellino è stata una «resurrezione». Quel 19 luglio 1992, passato alla storia come la strage di Via D’Amelio, Rita aveva 47 anni, un marito, tre figli e una vita del tutto tranquilla. Lavorava in farmacia e fin da piccola aveva «una timidezza patologica», come la definisce lei stessa. Quel giorno le cambiò la vita. «Non volevo vedere Paolo per salvare l’immagine bella che avevo di lui». Per un attimo Rita ebbe il dubbio di non essere abbastanza forte. Ma non ebbe il tempo di pensare, che la figlia la raggiunse con uno sguardo sereno. Le mostrò le mani e le posò su di lei: «ho accarezzato lo zio», le disse. «Lo zio sorride». Certo era un modo per consolarla. Ma «interpretai il sorriso come un segno. Forse per indicarci che c’era ancora qualcosa per cui vivere».
I 24 anni che ci separano da quel terribile evento non hanno cambiato quell’aurea umile e timida che ancora avvolge Rita Borsellino. «Paolo mi lasciò un’eredità straordinaria». In fondo «quale diritto avevo di tenere solo per me il suo ricordo?». Il ricordo di un fratello, anzitutto, di un grande uomo e quindi di un grande magistrato. «Devi parlare di Paolo», le disse la madre, «perché la gente conosca e non dimentichi». Così è stato. Rita aveva cominciato a intuire che cosa doveva fare, alcuni giorni prima della morte del fratello. Ma non si era resa conto di cosa stava per accadere. Nei 57 giorni che separarono Paolo dalla strage di Capaci, in cui perse la vita Giovanni Falcone, il suo grande amico, prima che collega, «provò ad abituarci all’idea che sarebbe morto. Ebbe la forza di provare ad allontanarsi dalla sua famiglia, a cui era profondamente legato. Cercava di essere cupo». Lui, sempre così
irruente e focoso. Ma «non ci si può preparare a certe cose. Pensi sempre che non possano accadere a te».
Dove il giudice ha trovato allora il coraggio di proseguire nonostante la consapevolezza della «condanna a morte» a cui era destinato? «Nella sua coerenza. Nella scelta di fare questo mestiere. Nel sapere affrontare la paura. Paolo sentiva un debito da pagare nei confronti delle persone che morivano». E poi c’era la passione, ci confida Rita. «Era difficile abbandonare». Oggi ha ancora senso donare la vita per un ideale, in una società molto diversa, individualistica? «Oggi è caduta l’etica nelle piccole e nelle grandi cose. È difficile avere un ideale vero. C’è una certa superficialità nell’affrontare la vita, perché sugli ideali ha prevalso il dio denaro. Si pensa che tutto si possa comprare e vendere. È un’economia senza etica».
Cosa significa oggi Paolo Borsellino per i giovani? «Paolo diceva che quando i ragazzi negheranno il consenso, la mafia sparirà. L’impegno educativo è quindi necessario, perché il fenomeno della mafia sia conosciuto. Prima quindi la conoscenza e poi l’educazione delle nuove generazioni». Questo il motivo che ha condotto alla nascita del Centro Studi Borsellino, con una ricca biblioteca frequentata anzitutto dalle scuole. «Bisogna tornare a sperare per costruire. Per i giovani è difficile comprendere che la società non ha corruzione. I ragazzi sono scettici, disinnamorati delle istituzioni. Ma le istituzioni sono sacre. Abbiamo sì il dovere di giudicare, di criticare, ma solo per ricostruire il valore delle istituzioni. Altrimenti che cosa lasciamo ai ragazzi?».
Si tratta certo di cambiamenti culturali lunghi, «ma un cambiamento è già iniziato». Grazie anche alle associazioni create da Rita: quella con Don Ciotti, Libera contro la mafia e la Carovana antimafia, che da anni gira tutta l’Italia e l’Europa. Ai ragazzi si insegna quindi la legalità anzitutto, ma non in senso astratto. Quella concreta, che si traduce in senso di responsabilità, nel rispetto delle regole, nella cittadinanza responsabile. Tutti temi affrontatati anche da un’importante organizzazione, che ha preso vita nel veronese 8 anni fa, “Prospettiva Famiglia”, alla quale si è aggiunta la rete “Scuola e Territorio: educare insieme”. Questo è stato il motivo che ha spinto Rita Borsellino ad accettare l’invito della coordinatrice Daniela Galletta di testimoniare la sua esperienza davanti ad adulti, genitori e studenti. Lo ha fatto la sera, a seguito di uno spettacolo curato da Andrea De Manincor su un testo poetico di Ruggero Cappuccio. Lo ha ripetuto il giorno dopo davanti a 700 studenti alla Gran Guardia. Perché educare è fondamentale. E «solo attraverso la memoria, una memoria operante, si può costruire il futuro».