DIECI ANNI DOPO. Mattinata di riflessione con gli studenti all’università nel ricordo dell’omicidio del giovane grafico di Negrar, l’episodio che sconvolse Verona nel 2008
«Siamo qui per Nicola e soprattutto per voi»
Paolo Mozzo
Il padre Luca: «Questa città non è poi così cambiata» La madre Maria: «Ho sempre avuto fiducia nei giovani»
C’è un motivo. Qualcosa deve per forza piegare a un silenzio religioso i 350 studenti delle superiori che affollano l’aula T3 al Polo Zanotto dell’università. Quando Nicola Tommasoli, 29 anni, designer di Negrar, morì (oggi dieci anni fa), vittima di un pestaggio brutale nella notte tra il 30 aprile e il 1 maggio 2008 da parte di cinque ragazzi in Corticella Leoni, «voi eravate ancora bambini», osserva Luca, il padre. E molti dei disegni e messaggi che scorrono sullo schermo, una sorta di catalogo della memoria deposta nel luogo dell’aggressione, hanno il segno dell’infanzia. L’evento dedicato al ricordo e alla riflessione su una delle pagine più dolorose della storia recente di Verona «non è il momento dell’accademia», sintetizza il rettore Nicola Sartor, «ma l’occasione per riflettere sulla violenza che ancora ci interroga. Che non è figlia solo del disagio ma qualcosa che riguarda, nella gestione dei conflitti, ciascuno di noi. Un modo per riscoprire come la nostra Europa abbia affidato da secoli alle istituzioni il monopolio della giustizia». Giustizia che fa il suo lento corso. «Credete abbiano capito ciò che hanno fatto?», chiede uno studente ai genitori di Nicola. Luca Tommasoli si limita ad enunciare: «Ancora un ricorso in Cassazione, ed è la terza volta, per due dei protagonisti. Con i primi 24 mesi spesi nel contrastare la tesi della difesa di una malformazione all’origine della morte. Certo, gli imputati sono parte attiva dell’azione dei loro avvocati… ma anche questo spiega». Dal 2008 nei tribunali. E senza Nicola.Una domanda resta sospesa, quando Ture Magro conclude tra minuti di applausi «Uno Strappo: Nicola Tommasoli, anno 2008», monologo potente e crudo in cui racconta del destino che fa incrociare le strade di otto ragazzi e di «Verona che si sveglia il giorno dopo senza riconoscersi più». La città è cambiata? «Certe ultime decisioni non mi portano a pensarlo», ammette papà Tommasoli. «Ci sono fatti e comportamenti che parlano un linguaggio politico».A distanza di un decennio Verona deve «imparare a parlare, a farsi anche le domande più scomode», era stato detto in apertura dell’incontro. Una di queste arriva da Sebastian, studente in platea, perplesso sul ricorrere nel testo di Ture Magro dei riferimenti al retroterra ideologico di destra della tifoseria dell’Hellas Verona, parte della storia di alcuni degli aggressori. L’attore spiega: «Abbiamo tolto molto materiale dalla mole di quello vagliato per scrivere il testo, per non “calcare la mano”. Ben venga comunque parlare anche di questo…». A incontro concluso è Luca Tommasoli a precisare: «La domanda di quel giovane è comprensibile ma ribaltabile. Perché da certe realtà non ci si dissocia?».Lo «Strappo» inchioda i ragazzi. Sale in crescendo dalla narrazione di vite normali fino al tempo in ospedale in cui si attende la sorte di Nicola («Quello che è stato operato per quaranta ore» mentre «ne aspettava 96 di libertà per il ponte del Primo Maggio») fino al finale, urlato e caotico, dell’aggressione. Sono quasi storditi gli studenti che erano bambini nel 2008. Ascoltano Maria, la mamma di Nicola. «Sono stata un’insegnante e ho sempre creduto nei miei alunni», dice commossa. «Potevamo chiuderci nel dolore. Ma non fidarsi dei giovani, non fare qualcosa, sarebbe stato un torto fatto a Nicola, uno che guardava all’essenza delle persone. Se siamo qui, credetemi, è per voi, per farvi capire come la differenza si affronti nel dialogo». L’applauso parte prima che finisca la frase.Mentre l’aula T3 si svuota un ragazzo si avvicina a Luca Tommasoli: «Io non sapevo di questo, accetti le mie condoglianze». Si stringono la mano. Dieci anni dopo, un padre e un figlio.