Progetto Educazione alla Legalità e alla Cittadinanza consapevole e attiva
GHERARDO COLOMBO
”Perché ho attraversato il mare …”
14 gennaio 2019 – Liceo classico “S. Maffei”
Relatori:
- Gherardo COLOMBO, ex magistrato del pool Mani Pulite, scrittore, fondatore dell’ass. Sulle Regole, coordinatore del Comitato legalità di Milano
- Ebrima MAKALOW e Babukar NDOW
Tema sicuramente al centro dell’attenzione quello affrontato questa sera con l’ex magistrato Gherardo Colombo e dedicato al delicato fenomeno dell’immigrazione, a cui si lega a filo doppio il concetto di tolleranza. Un principio ed un valore sacrosanto, che abbiamo il dovere di portare avanti, ancorché declinato in vari modi, secondo la sensibilità di ciascuno.
La serata si è aperta con i ringraziamenti al Dirigente Fattore, padrone di casa insieme ai docenti dello storico liceo classico “Scipione Maffei”, un istituto che rappresenta un pezzo di storia della città. Ci siamo infatti ritrovati nel rinnovato edificio, alla presenza di circa 250 persone, il massimo che l’aula magna potesse ospitare.
Ha aperto la serata la prof.ssa Galletta con i ringraziamenti ai docenti, ai dirigenti e ovviamente ai nostri graditi ospiti, senza dimenticare i ragazzi che sono i nostri veri protagonisti. Sempre nel corso dell’introduzione, si è ripercorso il cammino di questa stagione, partendo dalla partecipazione al Tocatì e proseguendo con la borsa di studio “N.Tommasoli”, con il pranzo della legalità e con gli altri eventi che ci hanno portato fino all’incontro di oggi.
Poi ha preso la parola la dott.ssa Zivelonghi che ha inanellato un percorso circolare passante attraverso cinque importanti parole disposte lungo questa immaginaria circonferenza; innanzitutto l’umanità (1), intesa come senso di attenzione per l’altro, di solidarietà e di sensibilità che ci deve contraddistinguere per il fatto di essere soggetti umani pensanti; poi l’umanità è stata legata alle regole (2), al rispetto per le norme, fondamentali nel nostro vivere sociale, fondamentali tanto in una partita di calcio quanto nella circolazione stradale e da qui alla comunicazione (3) intesa come relazione, come importanza che il cittadino si informi su come viene gestita la cosa pubblica (res publica, ossia repubblica), come necessità di integrarsi con gli altri componenti della comunità perché ciascuno è portatore di capacità e doti uniche, ineguagliabili e preziose. Poi dalla comunicazione siamo arrivati alla politica (4), ossia l’arte del bene comune. Ma è veramente così? Oggi, quando citiamo questo vocabolo, solitamente lo associamo a concetti ben diversi dal bene della polis, ossia della collettività; lo affianchiamo, infatti, a concetti come corruzione, come interesse privato, come possibilità di approfittarne a scapito della collettività. Un declino davvero preoccupante assunto da un’arte come lo era originariamente, intesa come ricerca e confronto del bene collettivo, intesa come compromesso, ma non quello del do ut des, bensì quello della visione della soluzione di medio-lungo periodo per tutti, che travalichi l’interesse immediato e magari effimero; quella dello statista che ha un’autentica visione del benessere del suo popolo, che non si ferma al risultato immediato. Ed infine, dalla politica siamo arrivati alla paura (5): la paura dello straniero, la paura di chi è diverso da noi, la paura di un futuro incerto, di cui a volte abbiamo bisogno di attribuire le colpe a qualcuno, solo perché ha una lingua, una cultura, una religione o usi e costumi diversi da noi. Secondo un moto circolare e perpetuo, infine, dalla paura siamo tornati all’umanità perché in fin dei conti siamo esseri umani, con le nostre debolezze e i nostri difetti, ma anche con l’obbligo morale di migliorarci e di rialzarci ogni volta davanti alle difficoltà.
Poi, la parola è passata ai due ragazzi provenienti dal Gambia e ai ragazzi del liceo che si sono confrontati con loro, uniti, supportati e dolcemente guidati da Gherardo Colombo, che li coinvolgeva e li stimolava, intervallando i richiami alla prima legge dello Stato, la Costituzione.
Colombo è partito dal percorso introduttivo per citare l’art. 3 della Costituzione:
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
Colombo ha posto così le basi per le domande dei ragazzi ai Ebrima e Babukar (Che idea avevate dell’italia prima di arrivare e che idea avete oggi?); i due ragazzi migranti hanno raccontato l’odissea vissuta per arrivare dal Gambia all’Italia attraverso un girone infernale rappresentato dai Paesi attraversati (Burkina Faso, Mali, Niger) per arrivare, attraverso il deserto, alla Libia. Non serve una grande immaginazione per capire cosa può accadere nelle prigioni libiche e quale enorme speranza possa rappresentare per questi ragazzi salpare nel Mediterraneo e abbandonare queste terre, dove – come ci ha raccontato Ebrima – puoi essere bloccato per strada da ragazzi armati di mitra e sequestrato in attesa che i tuoi genitori versino dei soldi affinché tu possa proseguire; terre dove il valore della vita umana è prossimo allo zero e dove dopo la Primavera araba del 2011-2012 non si sono ancora poste le fondamenta per la costruzione di quegli apparati statali che possano davvero dare il via alla costituzione di uno Stato efficiente, giusto e trasparente, ma dove ancora, purtroppo, interi territori sono in mano a bande di ribelli.
Una ragazza ha piacevolmente sollevato il tema di Antigone, ossia di chi vive il contrasto tra il rispettare i propri principi ed il proprio umano sentire da una parte e le leggi che governano la comunità dall’altra, specie quando queste ultime possano apparire ingiuste. Su questo, Colombo ha rammentato che la Corte Costituzionale vigila su questo e sul fatto che nessuna legge dello Stato può essere in contrasto con la Costituzione. Da qui ha preso spunto, per ripercorre l’art. 2 (“La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, …”) e l’art. 11 (L’Italia ripudia la guerra …)
Altre domande poste dai ragazzi erano legate alla curiosità di cosa pensassero Ebrima e Babukar dell’Europa e come vedessero l’attuale situazione in seno all’Unione Europea; le risposte sono state molto concrete: questi ragazzi, che sono arrivati qui dopo esperienze allucinanti, chiedono di essere trattati esattamente come gli altri ragazzi, chiedono di potersi fare qui quella vita che era impossibile a casa loro. Chiedono di usufruire di vere scuole e ospedali e non come da loro, dove “le scuole e gli ospedali sono tali solo di nome, per andare a scuola a 13 anni facevo 10 km a piedi con la sedia sulla testa e non dovevo dimenticarla a scuola, altrimenti me l’avrebbero rubata”.
Sicuramente, la nostra cara vecchia Europa deve fare ancora molto per eliminare ogni forma di discriminazione e per consentire anche a queste persone di vivere in modo onesto e dignitoso, ma – soprattutto dopo aver sentito dai nostri amici cosa succede oltre il Canale di Sicilia – vorrei anche spezzare una lancia per un continente ricco di storia e di arte come il nostro e dire che, forse, il bicchiere è più pieno di quanto si pensi.
Ripeto, dobbiamo migliorarci perché certi sguardi, certe battute rivolte a chi viene da altri Paesi possono ferire più di un coltello e, per combattere questo fenomeno, tutti possiamo fare la nostra parte, ma sarei anche dell’idea che certi atteggiamenti non sono specificamente legati al nostro rapporto con gli extra-comunitari, bensì ad una nostra generale incapacità di vedere che l’altro è come noi, anche se ha un’età diversa o abitudini diverse. Lo dimostrano, come ha confermato lo stesso Colombo, le migliaia di cause che giacciono nei tribunali e relative a quelli che, con un’espressione apparentemente ironica, sono catalogati come “rapporti di buon vicinato”. Litighiamo col vicino perché è anziano o perché ha il volume alto della TV o perché va a letto presto e si alza presto, mentre noi andiamo tardi e ci alziamo tardi.
Quisquilie che dobbiamo imparare a superare per vedere il bello e il positivo che c’è in ognuno di noi e lo faremo con atti molto semplici, anche e soprattutto in famiglia: chiedere “per piacere”, domandare scusa, dire “grazie” ed essere disponibili ad aiutare chi ce lo chiede; se impareremo a farlo in famiglia, i nostri figli troveranno normale farlo anche fuori.
Un “grazie” al pubblico intervenuto, al giudice Colombo, a Ebrima e Babukar e a tutti i ragazzi del liceo Maffei che hanno avuto il coraggio di confrontarsi su questo tema.
A presto.
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Per PROSPETTIVA FAMIGLIA
dott. Paolo STEFANO