di Marco Imperato | 7 maggio 2014 (I blog de IlFattoQuotidiano.it)
Lo sport potrebbe essere lo strumento più efficace per comunicare alla gente e soprattutto ai più giovani la bellezza delle regole: la bellezza di uno spazio nel quale tutti hanno le stesse possibilità e devono rispettare le stesse regole e vince soltanto chi ha più merito (e talento e fortuna… perché no?).
La legalità è proprio questo: quando le regole sono vissute e accolte ciascuno esprime le proprie capacità liberamente ma l’unica vera sfida è con se stessi, nella ricerca della piena realizzazione delle nostre possibilità.
Non conta chi si è o chi si conosce o quanto si è potenti o ricchi, ma solo la passione e l’impegno: l’unica grande soddisfazione, accessibile a tutti, è sapere di aver dato tutto, di aver fatto il proprio dovere fino in fondo (in fondo siamo quasi tutti mediani, per dirla con Ligabue…). Dove non c’è legalità prevale la regola del più forte, del più prepotente e potente: per questo la legalità è il potere dei senza potere (Dubcek).
Nel grande campo da gioco della società “ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società” (articolo 4 Costituzione).
Ecco che allora il grande circo del calcio, che catalizza così tanta attenzione nel nostro Paese, è una triste immagine della mancanza di cultura della legalità, vero cancro di una nazione deturpata da corruzione e logica mafiosa.
Tre esempi concreti.
Primo. Sono un tifoso della Juventus e confesso che l’emozione della partita è qualcosa che mi coinvolge ancora moltissimo nonostante tutto…Ma quanto sarebbe bello sentire i giocatori e dirigenti di questa squadra non rivendicare gli scudetti revocati? Certo, ci si può rammaricare di una punizione che ha cancellato anche dei meriti sportivi effettivi, ma se nel collettivo qualcuno è stato riconosciuto scorretto, bisogna pagarne le conseguenze e accettare le regole. Si vince e si perde e si stringe la mano a chi è stato più bravo. E quando si fa un fallo si accetta la punizione. Questo è quanto. Se non si riconosce il valore di una decisione si sta dicendo che si è fuori da quelle regole e che siamo noi stessi ad applicarle. Ma in un nessun sistema le norme possono essere decise ed applicate dal medesimo soggetto a cui sono destinate: questo è l’arbitrio.
Quindi, per dirla in numeri, 30 e non 32. Per favore… Una sconfitta pulita vale più di una vittoria con l’ombra del sospetto. Se non crediamo in questo diciamolo e smettiamo di chiamarlo sport.
Secondo. Gli stadi ostaggio dell’odio. Troppa parte del tifo è un canalizzatore delle frustrazioni e dei disagi di chi cerca un’identità forte per sentirsi qualcuno contro qualcun altro. Io voglio solo incoraggiare i giocatori della mia squadra, soprattutto nei momenti di difficoltà, ed applaudire gli altri quando si dimostrano più bravi. Invece sugli spalti troviamo rabbia, pregiudizi, ignoranza, volgarità… Come abbiamo finito per assuefarci a tutto questo? Come possiamo pensare che le nuove generazioni imparino il rispetto delle regole e il verdetto del campo se godiamo solo della polemica e dell’offesa? Come dovrei spiegare ai miei figli di 5 e 7 anni che dovevano nascondere le loro sciarpette bianconere perché i Carabinieri temevano che ci avrebbero presi di mira…? Li ho portati in guerra o a una festa collettiva?
Terzo. L’ipocrita silenzio dei giocatori. Da anni sogno che i giocatori si fermino e dicano chiaro e tondo ogni domenica che non vogliono tifosi che insultano gli avversari. Vorrei dei calciatori responsabili e coraggiosi, che allontanano e disconoscono quelli che esultano solo con gestacci agli avversari o esponendo orgogliosi sciarpe di insulto. Anche dopo i fatti di Roma ho sentito qualcuno di questi professionisti strapagati dire che loro non c’entrano nulla. Non è vero, perché tutti insieme hanno accettato di diventare gli idoli di questa religione che si nutre troppo di rabbia e troppo poco di passione e gioia. Per non dire della totale mancanza di rispetto che manifestano continuamente nei confronti di chi ha il difficile compito di arbitrare…
Il punto non è certo salvare il calcio.
Il punto è che il calcio rivela la pancia di un paese orgoglioso della sua cultura di illegalità e prepotenza volgare, dove ad ogni partita dobbiamo impegnare centinaia di membri forze dell’ordine per evitare scontri.
Sarebbe davvero ora che chi non si riconosce in questo lo dica a voce alta.
Io amo le regole, perché sono la possibilità della libertà.
E amo il calcio.
Vorrei che le due cose non fossero in contraddizione.